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  S.O.S. Yugoslavia-Kosovo Metohija

         Associazione di Solidarietà

 

 

 

 

 

 

L’Associazione S.O.S. Yugoslavia-Kosovo Metohija

al Festival di Letteratura e Montagna

LAGO MAGGIORE – VERBANIA 2011

 

 

 

 

Domenica 26 Giugno nell’ambito delle manifestazioni relative al “Festival letteraltura di Montagna, viaggio, avventura” nei locali della “Società operaia di Verbania” in collaborazione con Torino Spiritualità, si è tenuto un incontro tra Enrico Vigna presidente dell’Associazione SoS Yugoslavia-Kosovo Metohija e Padre Andrej, monaco ortodosso del monastero di Visoki Decani in Kosovo.

Detto monastero è dal 2004 patrimonio dell’umanità dell’Unesco e attualmente sotto la protezione militare della KFOR

 

 

Vi alleghiamo stralci dell’intervento di Padre Andrej

 

 

 

 

 

IL DIRETTIVO DI S.O.S. YUGOSLAVIA

 

 

 

Il monastero a cui appartengo si chiama Visoki Decani e si trova nell’ovest del Kosovo nella parte che in serbo si chiama Metochia dal greco Metochion che significa: “la proprietà del monastero”. Proprio questo nome indicava, nel tempo passato, la grande diffusione di monasteri e delle loro proprietà nella zona.

L’impressione di magnificenza che suscita la Chiesa di Decani, completata nel 1335, perfettamente conservata nella sua bellezza, nella sua architettura e nei suoi affreschi, viene rafforzata dal contrasto con i cupi dintorni dai quali si accede al monastero.

Appena si giunge al monastero, cambia anche l’aspetto della natura, poiché la valle che ne consente l’accesso si trasforma in una gola che si insinua tra alte montagne che improvvisamente appaiono sullo sfondo del panorama.

La chiesa del monastero eccelle in bellezza talmente tanto che quasi certamente nel passato i luoghi attigui hanno vissuto uno splendore altrettanto magnifico.

Nel monastero, dove all’epoca eravamo in venti, abbiamo sperimentato l’inizio di una guerra insolita che ha testimoniato l’assurdità di versare sangue tra fratelli.

La condizione nella quale il monastero si è trovato prima, durante e dopo la guerra è paragonabile alla situazione che si riscontra al centro di un uragano. Mentre l’aria del vortice spazza con irruenza tutto intorno a se, nell’occhio dell’uragano c’è quiete e silenzio, l’aria ha pressione ed umidità normale e paradossalmente il centro risulta essere il luogo più sicuro.

Questa sicurezza non è stata percepita solamente da noi, durante la guerra la gente istintivamente si avvicinava al monastero cercando un rifugio, che non è stato rifiutato ad alcuno.

I primi che hanno cercato questa sicurezza sono stati i Serbi espulsi dai villaggi attorno alla città di Decani un anno prima dei bombardamenti, successivamente, verso la fine di questi, i nostri vicini di casa Albanesi, che cercavano riparo dai para-militari serbi, e per ultimi, nell’immediato dopoguerra, i Rom, espulsi dai guerriglieri dell’Uck rientrati nelle aree urbane.

Era la primavera del 1999, ed i bombardamenti dell’allora Jugoslavia erano al proprio apice, dal monastero osservavamo i bombardieri della Nato che provenivano dalla Serbia centrale, cabravano sopra le montagne che circondano il monastero a sud e che, come accaniti avvoltoi, ritornavano a compiere le loro sinistre faccende.

A parte ciò che vedevamo, abbiamo appreso dei bombardamenti dalle notizie che ricevevamo e dai boati che ascoltavamo provenire da dietro la collina.

Quel giorno di aprile avevamo appena terminato l’aratura dei campi del monastero e con l’arrivo del buio tutti i monaci ed i profughi serbi sfollati dai villaggi attorno a Decani, che ospitavamo, erano andati a letto per riposare e prepararsi alla fatica del giorno successivo.

Improvvisamente intorno alle nove e trenta della sera abbiamo distintamente avvertito un fischio penetrante che è durato una decina di secondi, dopo di che è seguita un’esplosione assordante.

I dormitori del monastero sono stati scossi in una maniera spaventosa, tutto ha tremato incredibilmente.

Tuttavia dopo qualche momento vi è stato un silenzio totale, poi si è iniziato ad udire il pianto delle donne e dei bambini profughi ospitati nel monastero, seguito dallo scalpiccio veloce dei monaci e dei profughi che abbandonavano i dormitori, convinti del crollo imminente.

Mentre tentavamo di calmare i bambini e soprattutto le loro madri ancora più terrorizzate dei loro figlioli, abbiamo nuovamente udito questo fischio affilato e ci siamo immobilizzati all’istante. Nuovamente è seguita un’assordante esplosione che potevamo anche vedere attraverso un bagliore, ad un centinaio di metri dal cancello del monastero, sopra la densa foresta nella vicina collina. Nessuno ha avuto il tempo di trovare un riparo.

Restavamo così, immobili, donne, bambini, uomini e monaci, attendendo che accadesse qualcosa di orribile.

Questa volta il silenzio dopo l’esplosione è stato interrotto da un rumore strano, simile a quello che fanno i pezzi di ghiaccio durante una grandinata. Abbiamo percepito che qualcosa cadeva intorno a noi.

Successivamente abbiamo udito chiaramente il rumore del vetro che si frantuma e nuovamente è sceso un silenzio interrotto solo dal rinnovato pianto di bambini e donne.

Poco dopo, convinti che tutte le vetrate del lato sud della chiesa fossero andate in frantumi, siamo entrati con ansia illuminando l’interno con una lampadina: nulla era stato danneggiato!

Un po’ meravigliati, siamo tornati nel cortile insieme ai profughi, siamo restati all’addiaccio per alcune ore sino al mattino e quando ci siamo resi conto della fine del bombardamento siamo rientrati nei dormitori, per cercare di riposare.

La vera meraviglia l’abbiamo sperimentata la mattina del giorno dopo scoprendo e vedendo cose difficili da comprendere e spiegare.

La prima cosa che abbiamo notato è stata come la parte del cortile dove durante la notte stavamo tutti, fosse completamente gremita da schegge di metallo.

Migliaia e migliaia di schegge, che abbiamo radunato per giorni, pericolosissime con i loro bordi affilatissimi, al punto che bastava un tocco leggero per tagliarsi.

Come mai la sera prima nessuno era stato nemmeno graffiato? E’ una domanda che sfugge ad una spiegazione razionale.

Un po’ dopo abbiamo notato che alcuni bambini giocavano con alcune palle di plastica rosse e con dei cilindri gialli che si vedevano in gran numero attorno alle mura del monastero. Abbiamo capito subito che erano le famigerate bombe a grappolo di cui avevamo solo letto gli ammonimenti, ed abbiamo celermente preso questi giocattoli pericolosi dalle mani dei bambini.

Dopo, abbiamo appreso dai militari che sono intervenuti per sminare, tutto sulle bombe a grappolo, di quanto siano pericolose e che sono vietate dalla Convenzione di Ginevra. A proposito, alcuni paesi della Nato non hanno firmato questa convenzione per cui esse fanno ancora parte dell’arsenale dell’alleanza.

Queste bombe sono ordigni molto cattivi, poiché c’è una bomba grande che rilascia altri ordigni più piccoli, delle quali alcune esplodono subito, altre come  già detto a forma di palle rosse e cilindri gialli, sono oggetti molto attraenti per i bambini, e si disperdono intorno, altre ancora penetrano la terra e come mine a pressione stanno in agguato in attesa delle vittime. Sono oggetti così tecnologicamente avanzati che reagiscono non solo al più leggero tocco ma anche al cambio della temperatura dell’aria che potrebbe causare un corpo umano che le si avvicina. Abbiamo osservato con i nostri occhi i bambini che giocavano con queste bombe, alcune di esse gliele abbiamo letteralmente strappate dalle mani, ma non sono esplose.

Mi ricordo anche di un uomo anziano, che con il proprio bastone, spingeva un cilindro giallo per oltre un centinaio di metri, sino all’artificiere che avrebbe dovuto distruggerlo.

Quando il militare l’ha visto, si è impaurito ed è saltato nel riparo tirando con sé l’anziano. Come le altre, la bomba non è esplosa e l’hanno distrutta a distanza sparando su di essa con un cecchino.

Non abbiamo mai saputo perché queste bombe siano state lanciate presso il monastero, è possibile che sia stato un errore?

Coloro che hanno bombardato l’allora Jugoslavia, spesso si sono vantati di possedere armi intelligenti e che la loro aggressione è stata molto sofisticata, tutto ciò a me non è sembrato possibile.

C’è qualcuno che sostiene che queste bombe non siano realmente intelligenti, poiché se lo fossero, tornerebbero indietro da dove sono state lanciate.

Così  può darsi che sia stato anche un errore, o forse qualcuno aveva intenzione di spaventarci, di renderci timorosi?

Le bombe a grappolo non sono più cadute intorno al monastero, però nel dopoguerra siamo stati bombardati con granate da mortaio ancora quattro volte, nonostante la protezione data dai militari italiani.

Personalmente l’assalto più difficile con le granate  è stato il penultimo, che è accaduto nel 2004, il più difficile, anche se quando è successo non mi trovavo al monastero.

Era il mese di marzo ed in Kosovo e Metochia tutto sembrava tranquillo, almeno secondo i rapporti stilati dai rappresentanti della comunità internazionale, pieni di ottimismo e di ammirazione nei confronti del progresso ottenuto nel percorso di fondazione di “una vera democrazia”, di una “autentica tolleranza multietnica” e di un “ambiente sicuro e protetto”.

Nonostante al monastero sapevamo bene che le cose non erano così come le proponevano, non potevamo immaginare quanto distruttiva ed immediata sarebbe stata l’esplosione della violenza che è seguita.

Quel 17 marzo mi trovavo con il mio Padre Abate nella capitale della Grecia. Abbiamo trascorso tutta la mattina, acquistando oggetti necessari al monastero nei mercati e nei negozi di Atene e nel tardo pomeriggio siamo andati ad una funzione durante la quale l’Abate oggi Vescovo di Raska Prizen, Teodosio, aveva spento il proprio cellulare.

A sera tardi, a cena presso degli amici, abbiamo acceso nuovamente il cellulare, che è stato tempestato dai messaggi di chiamate non risposte. C’erano oltre cinquanta chiamate sul numero di telefono di Padre Sava, il vice Abate che era rimasto al monastero.

L’abbiamo richiamato con prontezza ed egli ci ha detto solamente di accendere la tv. In tv la prima immagine era quella di una chiesa in fiamme nella città di Prizen. Le immagini che si susseguivano erano quelle di scontri tra teppisti kosovari albanesi e la polizia internazionale e poi ancora chiese e case serbe bruciate.

Anche se stanchi delle incombenze della giornata in Atene, abbiamo preso subito la decisione di partire in auto per la Serbia. Abbiamo consumato in fretta un caffè, perché da Atene al confine serbo ci sono oltre 700 km, poi ci siamo seduti in auto con me alla guida. Ho premuto l’acceleratore.

Ciò che è seguito è stata la più difficile e strana notte della mia vita.

Da quando sono arrivato al monastero di Visoki Decani, sin dal primo giorno ho sentito senza ombra di dubbio che quello era il posto per me e che io gli appartenevo. Mai fino a quella notte ho preso in considerazione la possibilità di rimanere senza il mio monastero nemmeno in quei momenti difficili che ogni tanto arrivano ai monaci. Sino a quella notte.

Guidavo al limite della pericolosità, rendendomi conto che Dio vedeva che noi non correvamo per un capriccio, per cui ci avrebbe protetto lungo il tragitto. La notte era già avanzata, non c’era alcuno per strada, la guida era monotona ed ogni tanto a Padre Abate veniva un colpo di sonno, ma dopo qualche secondo si destava con un sobbalzo e chiamava padre Sava al telefono. Penso che quella notte abbiamo fatto almeno cinquanta chiamate.

Quel 17 marzo sono scoppiate delle sommosse causate dalla falsa notizia circa la responsabilità di un serbo della sfortunata morte di tre bambini albanesi.

Quando la notizia si è dimostrata falsa era già troppo tardi, essa si era diffusa in un lampo, cosicché in una decina di differenti luoghi, circa 50.000 ben organizzati e coordinati teppisti, hanno iniziato uno scellerato attacco nei confronti dei serbi e delle chiese ortodosse. L’impressione generale fu che tutto era stato pianificato e pronto per l’attacco e che si attendesse esclusivamente un movente. In mancanza di un’occasione reale si è inventato un falso movente, come in seguito provato da un’indagine  svolta dalle Nazioni Unite.

In soli due giorni 4.000 persone sono state espulse, 9 civili uccisi e molti altri feriti e pestati, per la maggior parte vecchi e donne, sono state distrutte trenta chiese ortodosse medievali e 900 case serbe. Persino due monasteri medievali sono stati bruciati e rasi al suolo.

Mentre ci avvicinavamo alla Serbia, non potevamo sapere tutte queste cose, però ogni volta che sentivamo padre Sava, ci parlava di un nuovo incidente, di un omicidio.

Siamo stati abituati a notizie del genere, considerando che sin dall’arrivo delle forze internazionali in Kosovo e Metochia già 120 chiese e monasteri erano stati distrutti e un migliaio di nostri fedeli uccisi o rapiti, sorte toccata anche a due monaci.

All’inizio avevo di nuovo la sensazione che il monastero di Decani fosse nell’ occhio dell’ uragano e per quanto fossi stato spaventato per il nostro popolo e la nostra Chiesa, non mi preoccupavo per la sorte del monastero.

In una delle chiamate, abbiamo appreso da padre Sava che il monastero femminile cinquecentesco di Devic, ad appena sessanta kilometri dal nostro, era stato raso al suolo, le monache erano state evacuate dai militari della Nato e stavano bene, però, come notava padre Sava, forse era proprio questo lo scopo: spaventare il cuore dei monaci ed evacuarli per distruggere i monasteri con meno vittime possibili, in quanto le regole di ingaggio della Nato vietavano conflitti a fuoco in assenza di pericolo per la vita.

In quel momento padre Sava, con voce eccitata, ci ha detto che proprio per questo motivo, i monaci di Decani erano determinati a non farsi evacuare e che intendevano chiudersi in Chiesa finché non fosse trascorso il tutto.

In me però era rimasta la sensazione che qualcosa di brutto poteva accadere anche al mio monastero. Un po’ ansioso ho suggerito a Padre Abate di permettermi di chiamare tutti i nostri amici in Italia, in particolare nell’esercito affinché potessero fare il loro meglio per proteggere il monastero. Così abbiamo chiamato tutti coloro che avrebbero potuto aiutarci, apprendendo che molti erano all’oscuro di ciò che stava accadendo, perché i media occidentali, eccetto la Grecia, davano delle informazioni molto scarse di alcuni “scontri interetnici” mentre si trattava di un vero e proprio pogrom, della notte di cristallo dei Serbi in Kosovo.

Mi ricordo che parlando con alcuni nostri amici sono scoppiato in una crisi di pianto, causato dalla sensazione di sentirsi inerme ed impotente, rinforzata anche dalla contingenza di non essere sul luogo, nel mio monastero.

Un po’ dopo il telefono ha squillato: “Ci stanno bombardando!” - ha esclamato padre Sava-

“Ci stanno bombardando!”

Quella subdola sensazione che qualcosa di male potesse accadere al mio monastero è diventato un panico reale.

Padre Abate diceva qualcosa a Padre Sava, ma io non capivo più niente, improvvisamente per la prima volta nella mia vita la possibilità di rimanere senza il mio monastero era diventata realtà. Questo ha causato una tempesta di pensieri e sensazioni, con un sentimento alla base di tutto: la paura. La paura per il mio monastero e per la mia comunità!

Questa forma di paura non era per nulla differente dalla paura di perdere la mia vita.

Io sono giunto al monastero quando Dio si è rivelato a me dopo una profonda crisi nella mia vita alla quale mi aveva condotto un sincero ateismo. Essendo stato un ateo coerente, l’esperienza della vita era quella di una nausea, quella di cui così verosimilmente scriveva Sartre. Quando Dio mi si è rivelato, ero all’epilogo, ma da allora ho improvvisamente ricevuto una prospettiva della vita completamente diversa, avendo capito che l’Amore è alla base di tutto ed ho cercato di iniziare nuovamente a vivere con quest’Amore.

Finalmente Padre Abate ha smesso di parlare con padre Sava ed ha fatto un sospiro, io ho premuto di più sull’acceleratore. Proverbialmente cauto, questa volta il mio Abate, non mi rimproverava per la guida spericolata, entrambi ci siamo affidati a Dio, non mi ricordo d’aver mai pregato con così tanto fervore.

 

Dopo una nuova chiamata di padre Sava, abbiamo saputo che nulla di grave era accaduto al monastero, anche se sette granate da mortaio erano cadute intorno, non avevano causato alcun danno.

Quello stesso giorno siamo arrivati in Kosovo Metochia, mi ricordo che appena ho varcato la linea amministrativa che separa il Kosovo dalla Serbia, tutta la mia ansia era sparita. Poco dopo ero di nuovo nell’occhio dell’uragano.

Gli esperti balistici italiani che hanno successivamente esaminato l’accaduto, ci hanno spiegato come si spara con il mortaio: la cosa più importante è trovare l’angolo di tiro, dopodiché la lontananza si regola con facilità e non è difficile colpire il bersaglio. Durante l’assalto che il monastero ha subito, l’angolo corretto è stato trovato dopo le prime tre granate, cosicché le ultime quattro avrebbero dovuto facilmente colpire il bersaglio, ma di quelle quattro una è caduta pochi metri davanti al monastero e le altre tre pochi metri dopo il monastero.

Quindi, o qualcuno ha intenzionalmente evitato di colpire il monastero o siamo stati incredibilmente fortunati. Quando l’esperto balistico ha terminato la spiegazione tecnica a padre Sava, indicando con il dito il cielo, ha detto: “Padre, sembra che lassù qualcuno vi ami molto”.

Certo che vi potrei parlare molto anche delle esperienze degli altri, di coloro i quali hanno perduto i loro vicini, o di coloro che hanno contratto il cancro a causa delle 14.0000 tonnellate di uranio impoverito gettato sulla mia Patria. Per questa gente si può dire che stanno ancora pregando tra le bombe, poiché le conseguenze dei bombardamenti nelle loro vite sono ancora più presenti oggi di quanto siano mai state nella mia, compreso il periodo quando le bombe cadevano realmente.

Noi conosciamo queste persone e cerchiamo di aiutarli sia con la preghiera che in tutti gli altri modi possibili. Sono convinto che le loro testimonianze potrebbero suscitare delle emozioni molto più forti  dell’esperienza che ho appena condiviso con voi; sono però imbarazzato a parlare in loro nome proprio perché l’esperienza del dolore che molti di loro stanno sperimentando, molte volte supera qualsiasi altra mia esperienza.

Tutto ciò che potrei riferivi, non sarebbe in grado di trasmettere esattamente questa sofferenza umana. Vi invito solamente ad approfondire la situazione dei serbi in Kosovo e Metochia, questa è la gente da vedere e da sentire, rimarrete meravigliati di come persone abbandonate da tutti possano essere grati per il più piccolo segno di attenzione, per un pensiero.

Molti di loro spesso incorrono in momenti di disperazione e non è facile offrirgli un qualsiasi sollievo.

L’unica cosa che a volte si può fare innanzi al dolore dell’altro, è pregare Dio, quello stesso Dio di cui il figlio unigenito gridava dalla croce: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”

 

 

 

 

 

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